28/01/10

Riflessi d’Anima

Riflessi d'Anima

Il vento accarezza i ricordi

tra le pieghe di un sospiro:

chi ero bussa alla porta di chi sarò

e guardandomi allo specchio

mi chiedo se vedo chi sono.

Forse un angelo, forse un demone,

carne tagliata via dall’anima in pena

di una notte lunga, quasi senza fine.

 

Sono una sposa senza l’abito nuziale,

che si stringe nelle braccia

di fredde lenzuola spiegazzate

stese su un letto mai consumato.

Vedo l’immagine di un cuore zingaro

che elemosina storie vagabonde

nei tacchi delle scarpe logorate

camminando a piedi nudi

su deserti di neve stanca.

 

Vedo tra i capelli il sapore di perle marine

che scivolano via tra i colpi

dei denti del pettine,

che lascia diciannove nodi

legati alla parte più profonda di me

in ricordo della mia esistenza.

Il ventesimo si scioglie tra quei denti

che masticano grida soffocate di perché.

E il senso delle cose si perde

nei sospiri dei ricordi.

Ali d’Acqua XIII

Water Wings XVI Ground Zero 1

Ground Zero

Tim non aveva mai visto tanta polvere, in vita sua, sentito tanto rumore tutto insieme -sirene, urla, lamenti, scricchiolii, sordi boati, schianti come di vetri che esplodono - e non aveva mai avuto così tanta paura. Non quella che lo assaliva a volte, di notte, quando tutto diventava silenzioso e scuro, e certe ombre nella sua cameretta si allungavano, minacciando di fargli il solletico ai piedi. Quella era una paura che bastava chiudere gli occhi, e sforzarsi di mettersi a dormire, per scacciarla. Ora provava il terrore di rimanere per sempre solo. Quando tutto il centro di San Francisco esplose, Tim fu sbattuto contro un’auto e perse i sensi. Quando si risvegliò, sua mamma era scomparsa.
Si aggirava come un sonnambulo fra i detriti e le macerie, mentre la nube di polvere densa gli impediva di vedere a più di un paio di metri, e gli entrava negli occhi e nei polmoni, facendolo starnutire. Strane figure gli passavano accanto, correndo, o barcollando, alcune coi vestiti strappati, altre coperte di sangue, tutte rivestite di una patina di polvere grigiastra, che li faceva sembrare come quei personaggi dei videogame dell’orrore.
Poi c’erano i poliziotti, i pompieri, che correvano qua e là, e Tim non capiva perché non lo vedessero, e anzi, quando cercava di fermane uno, questo gli dava una carezza, o uno scappellotto, biascicava qualche parola e correva via di nuovo, verso il punto in cui il fumo era più denso.
Ormai era chiaro, non avrebbe più rivisto la sua mamma. Si mise a sedere sul bordo del marciapiede, poggiando il mento sulle mani, un’espressione assente sul viso, mentre i rumori intorno a lui sembravano allontanarsi, quasi risucchiati dalla nuvola di polvere che, lentamente, si abbassava a livello della strada.
Sarebbe rimasto solo, per sempre, per sempre sempre. Una lacrima iniziò a rigargli la guancia, scivolando e portando via la polvere, mentre un’altra iniziò a formarsi sul bordo dell’occhio.
- Come ti chiami? - una voce dolce, e la sensazione di una mano forte e salda sulla sua spalla. Tim alzò la testa, piegandola leggermente indietro.
- Tim - disse, rivolto alla figura alta e vestita di nero che lo sovrastava.
- Ti sei perso?
- Si... no... si, mia mamma...
L’uomo alto e vestito di nero indicò un punto, alla loro sinistra, dove la polvere iniziava a diradarsi. Tim guardò in quella direzione, e per un momento il suo cuore smise di battere.
- Mamma! – urlò, scattando in piedi e correndo verso la figura che stava uscendo barcollando, da quell’inferno grigiastro. Si fermò un attimo, prima di raggiungerla, voltandosi verso l’uomo in nero. Lo fissò per un attimo, come studiandolo. Poi gli sorrise, e mormorò un “grazie”, a voce così bassa che probabilmente quell’uomo nemmeno sentì.
Michael ricambio il sorriso, e senza aprire le labbra, rispose con un “mio dovere”, che Tim sentì benissimo, dentro il suo cuore, più che nella testa.
Poi la figura vestita di nero si voltò e, fischiettando una canzone di Jimi Hendrix, si addentrò nella nube di polvere, verso l’epicentro del disastro.

23/01/10

Ali d’Acqua XII

Spiaggia BN

La spiaggia deserta

di Robi & Samy California

Melville planò con grazia sulla battigia, saltellando una, due volte, finché l’inerzia dell’atterraggio non fu assorbita dalla sabbia, quindi scosse le piume della testa e si lisciò le ali, con rapidi colpi di becco finché, soddisfatto, si fermò a osservare la spiaggia, e il mare di fronte a lui.
Gonfiò il piumaggio, faceva fresco a quell’ora, che non era ancora sera ma non era nemmeno più giorno, e l’immobilità dell’aria, la piatta superficie dell’Oceano, e la distesa di sabbia bianca ai suoi lati, che sembrava infinita, contribuivano ad accrescere quella sensazione di freddo, che iniziava a insinuarsi fra le sue ossa cave. Quella era l’ora in cui, di solito, arrivavano i suoi amici, i due buffi umani che si tenevano sempre per mano, e sedevano sul divano rosso a ridosso del bagnasciuga, emettendo strani suoni che sembravano una sorta di linguaggio, ma che Melville non riusciva a comprendere. Solo che, stasera, i suoi amici non c’erano, e il gabbiano intuiva forse non sarebbero venuti.
Melville aveva sempre abitato la spiaggia, che esisteva da sempre, a quanto ricordava, come da sempre c’era lui, lì, ad osservarla formarsi. Quando lui arrivò, la spiaggia era un deserto di immagini sfocate, fatto solo di rocce, gelide come l’acqua del mare che le circondava. L’alito caldo del vento che nasceva dalle ali dell’Arcangelo ancora non c’era, come non c’erano, a formare le onde, le correnti che la Figlia dell’Oceano alzava fino al cielo.
Arrivarono lentamente, e ai primi soffi di vento le rocce lasciarono spazio a un lembo di sabbia bianca, mettendosi ai lati, per far sì che le onde modellassero la spiaggia, in attesa che i suoi amici, finalmente, arrivassero e ne prendessero possesso. Perché era stata creata a loro immagine, la spiaggia, prima ancora che loro fossero creati, e per loro, e loro soltanto, esisteva.
Li vide, un giorno di inizio estate, che si scambiavano sguardi e sorrisi tenendosi le mani, seduti su una di quelle rocce. C’erano ancora le ali sulla schiena di Lui, e la coda con la pinna, al posto delle gambe di Lei. Era l’inizio di una magia, che presto divenne amore, un amore che li avrebbe portati a rinunciare a parte della loro natura eccezionale, ma gli avrebbe donato la possibilità di vivere l’Uno per l’Altra. E quella spiaggia sarebbe esistita finché loro sarebbero stati in grado di raggiungerla.
Il che rendeva Melville in qualche modo fiducioso: anche se stasera i suoi amici non si erano visti, questo non significava non sarebbero più venuti, sulla spiaggia bianca. Forse erano impegnati altrove, ma la spiaggia esisteva ancora. Ed era la loro spiaggia. Altri posti simili, o completamente differenti, esistevano da altre parti, per altri amici, di altri gabbiani -Melville tendeva a rapportare a sé ogni forma di vita, che non fossero i suoi amici, per questo ragionava così - lo sapeva, ma quella spiaggia bianca era solo per quei due che si tenevano per mano, sedendo sul divano rosso a ridosso del mare.
Melville spiccò un salto, e volò fino al divano, dove si adagiò, mettendosi comodo. Aveva visto formarsi quel divano, lentamente lo aveva osservato sorgere dalla sabbia, in attesa che i suoi amici potessero infine sedervi, e aveva visto il mare gonfiarsi, e il cielo coprirsi di nuvole chiare, mentre quel momento si avvicinava. Avrebbe custodito lui quel posto, finché i suoi amici non fossero tornati, si sarebbe seduto lui sul divano rosso, aspettando il loro ritorno.
Mentre seguiva il filo dei suoi pensieri, Melville sentì, o meglio, percepì, un cambiamento nell’aria. Si era alzato un soffio di vento, caldo, che proveniva dalla spiaggia, diretto verso la superficie del mare, che iniziava a incresparsi. Il vento correva forte sopra di lui, portando con sé le ombre veloci provenienti dalla spiaggia, e alzando lo sguardo, il gabbiano vide che le nuvole si stavano addensando, ad est, e lentamente si abbassavano sull’Oceano. Il mare si agitava sotto il violento soffio del vento, quasi volesse accelerare il moto delle onde, aumentandone il volume, l’altezza e l’intensità.
Pareva quasi che onde e nuvole cercassero di toccarsi: un contatto, un abbraccio.
Melville gonfiò le piume, bianche come la sabbia della spiaggia, e sorrise. Intese quel vento come un richiamo da parte dei suoi amici: non erano lì, ma si cercavano, onde e nuvole si compattavano abbracciandosi nello stesso modo in cui lui aveva tante volte visto fare l’Arcangelo e l’Ondina.
I suoi amici sarebbero tornati, ne era sicuro…
Scosse le ali sorridendo, e le schiuse, alzandosi in volo verso l’orizzonte.

17/01/10

Ali d’Acqua XI

newspaper 1

Breaking News

San Francisco-
Ultimi aggiornamenti dalla Costa Ovest: tutte le comunicazioni da San Francisco sono interrotte, impossibile raggiungere la zona con qualsiasi mezzo, le notizie che ci arrivano si basano su comunicati ufficiali dell’Ufficio del Segretario di Stato. Fra le ipotizzabili cause del disastro, un terremoto di magnitudo 9,5, una serie di esplosioni che hanno interessato varie zone della città, sulla cui natura ancora non è possibile avere ulteriori informazioni. Non si conosce il numero delle vittime né è possibile avere stime precise circa l’entità del disastro, sulle quali le fonti ufficiali mantengono ancora uno stretto riserbo. L’evento che ha interessato San Francisco ha avuto ripercussioni su tutta la Costa Ovest, e scosse sismiche di lieve intensità sono state registrate anche nella Columbia Britannica, e in Alaska. Ulteriori approfondimenti nelle successive edizioni.

 Sidney-
Un’onda anomala di proporzioni eccezionali ha colpito la città di Sidney, provocando quello che già alcuni organi di informazione etichettano come l’evento “Fine del Mondo”. L’onda, che ha trascinato nella sua corsa verso l’entroterra tutto quello che incontrava sul proprio percorso, si è abbattuta sulla metropoli australiana intorno alle 9.46 del mattino, provocando danni sulla cui entità è ancora impossibile avere valutazioni anche approssimative, ma se i dati venissero confermati, si prospetterebbe uno scenario di devastazione di proporzioni mai viste. Attendiamo aggiornamenti, che comunicheremo in tempo reale con edizioni speciali dei nostri notiziari.

13/01/10

Ali d’Acqua X – Parte Seconda

Water Wings XIIa

 

La Fine del Domani? 

Parte Seconda: l’ultima onda

Devereaux capì subito che la situazione era giunta al punto di non ritorno. Non aveva mai visto Grace così tesa, e preoccupata. In realtà non l’aveva mai vista preoccupata, al punto che a volte pensava fosse una specie di androide, come quelli dei racconti di Asimov, o i simulacri di Dick, personaggi che riflettevano l’emozionalità attraverso calcoli binari. Naturalmente non era consapevole che quello schermo di saldo autocontrollo era mantenuto in piedi dai poteri atlantidei dell’Ondina, una barriera che doveva proteggere la sua natura oceanica.
- Dovremo mettere in moto tutta la struttura - disse, dando un’ultima occhiata ai grafici di rilevazione che Grace aveva tratto dalle registrazioni effettuate in mare aperto, durante il suo primo incontro col Kraken - e non sarà una cosa possibile in tempi brevi.
- Dovrà esserlo - intervenne la ragazza - perché se i calcoli sono esatti, questa anomalia raggiungerà piena potenza entro due giorni.
Devereaux si grattò il mento, un gesto abituale, che denotava un momento di dubbio. Poi si lisciò indietro il ciuffo di capelli brizzolati.
- Che cosa c’è laggiù, Grace? Da come ne parli sembra quasi un... démone... ne cest pas?
Grace lo fisso per lunghi istanti, senza rispondere. Poi batté l’indice sui tabulati, sparsi sulla superficie della scrivania.
- Inizia a metterti in contatto con ogni cellula dell’organizzazione, e quando le hai contattate tutte, passa ad avvertire gli altri, senza dimenticarne nessuno. Non sappiamo dove l’anomalia colpirà la prossima volta, ma ti assicuro che sarà un disastro. Cerchiamo almeno di limitare i danni.
Devereaux annuì, tornando a grattarsi il mento, mentre Gacelyn usciva dalla stanza, con passi veloci e nervosi.

- Tu sei pazza! Non ti è ancora bastato?
Chuck era visibilmente agitato, e non lo nascondeva, gesticolando in direzione di Grace, con la concitazione di un ragazzino che sa di aver ragione, ma non trova credito presso l’interlocutore.
- Vuoi tornare laggiù, da sola?
- Non da sola, Chuck, con te - rispose l’Ondina, sorridendo. Era seduta su una comoda poltrona di pelle color cobalto, le gambe accavallate, fasciate in pantaloni neri attillati.
- Mi pare l’ultima volta non sia servito a molto, se non quasi a rimetterci la pinna, Grace!
- Non ho più la pinna da un pezzo, Chuck, e non temere, so quello che faccio.
Chuck si piazzò di fronte a lei, con le mani sui fianchi, -Come sempre, certo. Ma almeno hai avvertito Gabriel?
Gracelyn aggrottò le sopracciglia – No - disse. Da qualche ora non riusciva a stabilire un contatto telepatico col suo Arcangelo, e questo contribuiva ad aumentare la sua preoccupazione. La terrorizzava, a dirla tutta - Ma anche Gabriel sa il fatto suo. Prepara la barca, Chuck, fra un’ora partiamo.
L’aborigeno sollevò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

Nessuna strategia era servita, nessuna mossa o contromisura, per non parlare dei suoi poteri, che parevano inutili contro il Kraken.
Grace aveva tentato un attacco psicocinetico, come la prima volta, ma non era riuscita a penetrare l’aura nera di glaciale assenza emotiva del Mostro. Non era nemmeno sicura il Kraken avesse una coscienza, addirittura un cervello, dentro il quale introdursi con i poteri mentali.
Aveva quindi pensato di sfruttare la sua forza, e il controllo dell’elemento marino, creando onde d’urto o, ruotando su se stessa, dando origine a vortici che muovevano tonnellate di acqua, lanciandole contro la massa scura del Kraken, ma senza sortire effetto.
La cosa più inquietante era la totale immobilità del mostro, durante i suoi attacchi: il Kraken non faceva nulla per controbattere i colpi mentali, e quelli fisici, limitandosi a rimanere immobile, sul fondo dell’Oceano, fissandola con quel suo occhio giallo, sinistro, allucinante.
Chuck, a bordo della barca, seguiva la lotta attraverso i sonar e gli scanner sottomarini, interpretando le onde sinusoidali e le termografie, come fossero nitide immagini assolutamente leggibili. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, mentre cercava di mantenere il più saldamente possibile un contatto telepatico con l’Ondina, che si trovava tremila metri sotto di lui, nelle profondità dell’Oceano.
Grace era allo stremo. Durante tutta la lotta aveva cercato di mettersi in contatto con Gabriel, ma nessuna risposta era giunta dal suo Arcangelo. Sapeva cosa significasse, ma cercava di negarlo, perché non avrebbe potuto concepire un futuro senza di lui. Chiuse gli occhi, concentrandosi sull’immagine del volto di Gabriel, quando sorrideva sornione, sedendo abbracciato a lei, sul divano rosso nella Spiaggia Bianca. E questo pensiero fu la sua fine.
Il Kraken si sollevò improvvisamente dal fondo dell’oceano, spostando una massa d’acqua grande come un isola, che iniziò a risalire in superficie, provocando un vuoto di pressione nella scia. Grace fu improvvisamente risucchiata in quel vuoto, e poi sbattuta contro le rocce taglienti che ricoprivano il fondale, mentre una scura nuvola di sabbia l’avvolgeva, oscurandole la visuale.
Il Kraken iniziò lentamente a salire in superficie, seguendo la massa d’acqua, e battendo coi tentacoli le rocce tutt’intorno. Colpi che staccavano massi e detriti, pesanti e giganteschi, che iniziarono a franare lungo l’irregolare fondale, colpendo Grace, impossibilitata a schivarli.
Un detrito la centrò in piena fronte, e in quel momento, in superficie, Chuck perse il contatto con lei.
Grace giaceva sul fondo del mare, mentre le rocce le cadevano addosso, formando lentamente quello che pareva un tumulo funebre, e aumentava in altezza e dimensioni. Finché l’Ondina sparì, seppellita da tonnellate di roccia, che la pressione delle profondità oceaniche saldava, rendendo quel tumulo sempre più simile a una tomba.
Infine fu il silenzio assoluto, e l’assenza di ogni moto, sul fondo dell’oceano. Un silenzio e un’immobilità che sapevano di morte.
In superficie Chuck osservava, paralizzato dal terrore, l’onda anomala alta sei metri e in continua crescita, che si muoveva a velocità pazzesca in direzione di Sidney. E dietro di essa, una figura scura che pareva uscita da un incubo, sembrava guidarne il percorso.

06/01/10

Ali d’Acqua X – Parte Prima

Water Wings XII

La Fine del Domani?

Parte Prima: la caduta dell’Arcangelo

Rivedere i particolari del disastro spezzettati in fotografie dai colori vividi e netti, creava il necessario distacco per poterne discutere, e di questo Gabe fu grato alla sua fedele Nikon.
Era in piedi, con una mano appoggiata sulla scrivania del Capo, e mentre parlava con lui, l’occhio cadeva ora a una ora all’altra delle fotografie che aveva appena finito di stampare. Steve invece fissava quelle immagini, quasi ipnotizzato. In tanti anni di mestiere non aveva mai visto una rappresentazione dell’orrore così iperrealista.
- Che dicono le autorità? - chiese, giocherellando con la stilografica, che batteva ritmicamente sul piano del tavolo in vetro.
- Brancolano nel buio - rispose Gabe - tanto per usare una frase che, in questo caso, mi pare azzeccatissima.
Steve sollevò lo sguardo dalle foto e fissò il fotografo. Gabe ricambiò lo sguardo.
- Lascia stare – continuò - piuttosto, ci sono dati precisi sul numero delle vittime, l’entità del disastro?
Il Capo volse lo sguardo in direzione della finestra alla sua sinistra, di là dalla quale San Francisco si stagliava netta, nella luce del primo pomeriggio - Non ancora, ma ci aggiriamo sulle 350...
- Mio Capo... - mormorò Gabriel. Steve lo guardò di nuovo.
- Che hai detto?
- Nulla - rispose l’Arcangelo, mordendosi il labbro, per essersi lasciato sfuggire quell’esclamazione - Cosa facciamo con queste?- continuò, indicando le foto.
- Direi... - iniziò Steve, interrompendosi immediatamente, mentre una sorda vibrazione che aumentava sempre di più, attraversava il pavimento e i muri della stanza. Gabe si appoggiò al muro, e la vibrazione gli trapassò la schiena, sempre più forte, mentre tutto nell’ufficio sembrava tremare, e sdoppiarsi. Steve aveva gli occhi spalancati e le mani strette sul bordo della scrivania. Poi, come era iniziata, la vibrazione finì, e i due si fissarono negli occhi.
- Una piccola scossa di terremoto - mormorò Steve, sospirando - la solita Frisco...
- Già - disse Gabe, imitando un’ombra di sorriso. Perché sapeva che era un’altra, la reale causa di quella vibrazione: il Leviatano era entrato in azione.

Volò con tutta la velocità che le sue ali divine permettevano, e in pochi secondi raggiunse il centro della città. E lo vide. Il Leviatano rimaneva nella propria dimensione, leggermente sfalsata rispetto a quella del piano di realtà che conteneva la Terra. A vederlo così -e solo gli occhi dell’Arcangelo potevano scorgere i diversi piani dimensionali contemporaneamente- sembrava una dissolvenza incrociata di immagini: due sequenze di filmati sovrapposte di cui una, la città con le sue frenetiche attività, il traffico, la gente, gli edifici, più nitida, e contrastata; l’altra, la massa grigiastra e viscida del Leviatano, con le bolle di antimateria che pulsavano come bubboni sul punto di esplodere, trasparente ed eterea.
Gabriel si era posto sul limite dei due piani di realtà, e anche lui rimaneva invisibile agli occhi indiscreti dei Sanfranciscani, e di ogni apparato tecnologico in grado di riprendere la scena. C’era poco tempo da perdere, e lo sapeva: il Leviatano stava materializzandosi nella dimensione terrena, con le sue bolle letali in procinto di annullare istantaneamente pezzi di San Francisco, ripetendo la scena che aveva fotografato, qualche ora prima, ma in una più vasta area della città.
Senza pensarci, materializzò la Spada di Luce, che brillò diafana nella sua mano, e si preparò ad attaccare. Pensò a Grace, e si chiese dove fosse, e cosa stesse facendo in quel momento. Il loro legame telepatico gli riportava sensazioni contrastanti: risoluzione, decisione, paura. L’Ondina stava probabilmente approntando la sua linea di difesa contro il Kraken. Ma più di questo, Gabriel nn riuscì a sentire.
Si lanciò contro la massa grigia del Leviatano, che si muoveva bulbosa e lenta, fra i due piani di realtà, e affondò la spada al centro della Cosa, dove secondo logica dovevano esserci organi vitali. Ma il Leviatano non era un essere vivente, non nel senso canonico della parola, e l’attacco dell’Arcangelo non sortì altro effetto, se non quello di aumentare la massa del Mostro.
Gabriel si allontanò di qualche metro, fissando quell’oscenità diventare più grande, le bolle di antimateria che rilucevano di un lucore giallastro, pulsando come bozzoli contenenti forme di vita inimmaginabili. Era quasi affascinato da quella visione, ipnotizzato, un senso di nausea che sfociava in angoli nascosti della sua mente, quelli che, nonostante la sua natura Divina, non riuscivano a comprendere la piena ed esatta natura del Male.
Quell’esitazione di un momento fu la sua fine. Il Leviatano lanciò una bolla di energia, che avvolse Gabriel, senza dargli il tempo di reagire, mentre un’altra bolla imprigionava la Spada di Luce, allontanandola da lui. L’Arcangelo fu attraversato da onde di puro dolore, mentre la bolla diventava solida, chiudendosi intorno a lui. Per un attimo fu come se il fuoco dell’Inferno incendiasse ogni atomo del suo essere semidivino, e in quell’attimo il Messaggero della Luce credette che il Capo, quello che ha visto tutto, e tutto previsto, lo avesse abbandonato, o ingannato, o peggio.
Per un attimo. Perché subito la coscienza di sé abbandonò l’Arcangelo, e Gabriel si accasciò all’interno della sfera, come una marionetta priva di vita a cui avessero tagliato i fili.
Da qualche parte in Paradiso, una Luce si spense.